Ben due interviste, su Fatto e Corriere, al direttore generale della municipalizzata romana di trasporto pubblico, Atac, segnano l’ennesimo sveglia che suona per la sindaca Virginia Raggi, che deve ancora decidere che fare da grande. Ma tra le righe delle interviste – scrive il sito Phastidio.net – c’è anche una sveglia per il governo centrale, che continua a non voler mettere mano ad una revisione della disciplina dello sciopero nei servizi pubblici e nella rappresentanza sindacale. Quando l’evidenza non viene colta.
Bruno Rota è ad Atac da aprile, dopo sei anni all’Atm di Milano, dove ha raggiunti risultati positivi, ma solo dal 28 giugno è dotato delle deleghe operative di direttore generale. Oggi conferma quello che tutti sanno, da sempre: Atac è un bubbone, che andrebbe inciso o escisso da una città che pare non avere anticorpi per reagire a quello che non è più declino ma decomposizione, e che rischia di portarsi dietro l’intero paese.
Il punto centrale richiamato da Rota è che Atac è sepolta dal debito: 1.350 milioni totali, 325 milioni verso fornitori, che stanno progressivamente cessando di rifornirla. Rota invoca quindi la ristrutturazione del debito, anche considerando che ad Atac serviranno molti soldi per investire nell’ammodernamento del parco circolante di mezzi, ormai sempre più soggetti a fermi per guasti, veri e presunti.
Rota, con gli intervistatori (Federico Fubini e Gianni Barbacetto) parla anche del personale. Al Fatto dichiara:
È stato scritto che Atac licenzierà 2.500 dipendenti.
«Falso. Il nostro problema non è tagliare i dipendenti, ma farli lavorare, perché oggi non riusciamo a coprire i turni. Troppe assenze, turni di lavoro abbreviati perché molti macchinisti non timbrano l’ora di entrata e di uscita e nessuno controlla. Qualcuno approfitta della situazione riconsegnando dopo qualche ora di lavoro il suo mezzo dicendo che non funziona più bene. Bisogna ripristinare un sistema di regole e di controlli per impedire che ognuno faccia ciò che gli pare»
Al Corriere, sullo stesso tema, la risposta è più articolata ma pare sempre rigettare l’ipotesi degli esuberi strutturali:
«[…] chi capisce di organizzazione aziendale, vede subito che il tema centrale oggi non è ridurre il numero dei dipendenti. Chi lo sostiene ora fa solo del terrorismo psicologico. Anzi i dipendenti in un certo senso mancano, visti i tassi di assenteismo consolidati nel tempo. Il tema è far lavorare di più e meglio quelli che ci sono. Oggi con questi tassi di assenteismo si fa fatica a coprire i turni»
Ah, beh, al vostro buon cuore. Ma non c’era un accordo sindacale sulle timbrature, ad esempio?
«Gli accordi di timbratura sono in larga parte lettera morta. Il personale di linea continua a timbrare poco e male. Per questo insisto che bisogna iniziare rispettare le regole, sono anni che non lo si fa. Si parla di turni massacranti e c’è gente che non arriva a tre ore effettive di guida, quando le fanno. Bisogna che si prenda coscienza anche di questi problemi. Non si timbra, malgrado le regole dicano altrimenti, e si prendono salari su orari di lavoro presunti. È intollerabile sia nei confronti di chi fa il proprio mestiere, sia di coloro che un lavoro non riescono ad averlo»
Piuttosto chiaro, no? Però il problema non è il personale, pare. D’accordo, serve politica e molta. Serve (forse) convincere la svagata Raggi a prendere la strada livornese del concordato preventivo, come fatto dal sindaco labronico cinquestelle Filippo Nogarin. Se Rota pensa di andare in questa direzione, è troppo esperto e preparato per non capire che le dimensioni ed il grado di sfacelo di Atac rendono questa strada poco o per nulla percorribile. Il suo resta un tentativo disperato.
Rota, per puntare sulla cosiddetta “pace sociale”, in nome della quale si fanno marcire ampie parti del paese, pensa forse di recuperare produttività, dopo aver liberato risorse per investimenti mediante ristrutturazione del debito. Ma i problemi di Atac sono arcinoti: da molto tempo Andrea Giuricin, economista dei trasporti, li ha bene evidenziati. Troppi amministrativi, troppo pochi operativi. Tutti ferocemente sindacalizzati, come spiega in modo disarmante lo stesso Rota al Corriere:
Che rapporti ha con i sindacati di Atac?
«Prima mi faccia dire che all’Atm di Milano ho avuto rapporti anche ruvidi in certi momenti, ma sempre costruttivi. Abbiamo lavorato in squadra e i risultati si sono visti. Insieme abbiamo rilanciato e reso più efficiente un’azienda che ha difeso il lavoro e ha creato una riserva di cassa importante»
E a Roma?
«I sindacati rappresentativi li ho incontrati tutti. Per la verità qui si presentano come rappresentanti delle posizioni del sindacato gente che ha trecento iscritti su undicimila dipendenti. Gente che va in tivù a spiegare come funzionano i sistemi di sicurezza dei mezzi senza saperne nulla»
Non saranno tutti così…
«No, certo. Ci sono sindacati più rappresentativi. Quando ho incontrato i loro rappresentanti ho avuto l’impressione che non avessero fino in fondo la percezione della gravità e della dimensione del problema. Poi naturalmente sono andati in assessorato a chiedere garanzie. Non hanno capito che è l’ultima spiaggia»
Difficile essere più chiari di così. La frantumazione sindacale e le protezioni politiche, che sono trasversali, paralizzano l’azienda e la fanno morire. A questo si sommano gli ampi margini offerti dalla regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici, mai rivista, dove micro sindacati bloccano milioni di persone ed il loro diritto alla mobilità. Rota non lo dice, ma servirebbe soprattutto quello: in primo luogo, regolare con legge nazionale la rappresentanza aziendale, in modo da evitare che questa proliferazione di cobas al cornetto e cappuccino affondi l’azienda. E poi, rivedere le norme sulla proclamazione degli scioperi. Se l’Italia avesse un governo centrale di soggetti adulti e responsabili, questa revisione del diritto di sciopero e della rappresentanza l’avremmo già, come altri paesi adulti e civili.
Invece, da noi ciò non avviene, perché c’è sempre un’elezione dietro l’angolo, foss’anche quella per il parcheggiatore abusivo di quartiere, e perché si teme sempre che al momento topico qualche termite equa e solidale, di sinistra come di destra “sociale”, si alzi a strepitare contro il liberismo che flagella questo paese. Nel mezzo, quelli che contano o dovrebbero contare, in senso numerico: gli elettori. Che evidentemente non trovano modo di esprimere maggioritariamente il loro disagio temendo che prima o poi qualcuno “venga a prendere” anche loro, nelle loro piccole e grandi rendite di posizione. Ma scordando che quel “qualcuno” è la realtà, che sfonda le porte a calci, senza bussare. La realtà ha un noto bias liberista, forse.
Tornando a Rota, auguri per la sua mission impossible. Per ora siamo alla captatio benevolentiae verso l’irresoluta sindaca, che “ascolta e sostiene”. Poi, se e quando deciderà di agire, ci farà sapere. Atac, come detto più volte da Raggi, è “patrimonio dei romani”. Un patrimonio radioattivo, si direbbe. L’inazione non è un’opzione, però. La scommessa di Rota è quella di usare la ristrutturazione del debito come volano di produttività ma anche di senso civico e dignità del personale, oltre che dell’utenza. Una scommessa pressoché disperata, quando il contesto culturale è degradato come a Roma.
Paradigmatica, in questo senso, è la chiusura dell’intervista al Fatto:
Rimpiange Milano?
«Rimpiango tantissimo Milano e Atm. Mi mancano quasi fisicamente. Mi manca il clima di verità in cui sono sempre avvenuti anche i confronti più aspri, per esempio con le forze sindacali. E mi manca la “squadra” di colleghi capaci che avevo faticosamente messo insieme in Atm. Qui a Roma, vincoli legislativi e la situazione aziendale rendono quasi impossibile rafforzare la squadra»
Raggi, se sei in vita batti un colpo. E piantala di dire che “è colpa di quelli che ci hanno preceduto”: questa motivazione può andare bene per il primo mese dopo l’insediamento, e continuare ad essere perfetta per tutti i piccoli pasdaran falliti che imperversano sui social e nel mondo reale. Quelli per i quali leggi e circostanze si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici. È questa indulgenza di branco, alla fine, la radice della mentalità mafiosa italiana.