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PER GLI ELETTI 5 STELLE SARÀ DIFFICILE DIMETTERSI

Il caso candidature dei 5 stelle ha riaperto il dibattito su rinunce e dimissioni dei parlamentari. La questione discussa è se e come un eletto possa rinunciare al seggio. Luigi Di Maio, capo politico del M5s, ha dichiarato:

“Chiederemo a queste persone di rinunciare alla proclamazione, cosicché tutti i cittadini possano votare serenamente il movimento perché comunque non verranno elette”.
– Di Maio su Facebook, 16 febbraio 2018
Le parole di Di Maio fanno pensare ad un percorso chiaro: se eletti, i candidati indesiderati rinunceranno alla proclamazione e prenderà il loro posto un altro eletto della stessa lista. Ma è davvero così semplice?

Nel post Di Maio cita la tesi del prof. Ainis, secondo cui un candidato può rinunciare alla candidatura. La legge elettorale in effetti contempla esplicitamente questa possibilità almeno fino alla scadenza della presentazione dei candidati (Dpr 361/1957, art. 22 comma 6 ter). Sul dopo la questione è più dibattuta. Stando quanto riportato dalla stessa senatrice Paola Taverna (M5s) la rinuncia di Emanuele Dessì sarebbe stata ricusata dalla corte d’appello proprio perché presentata oltre la scadenza dei termini.
Infatti l’ipotesi del leader 5 stelle non ricalca quella del prof. Ainis. Di Maio non parla di rinuncia alla candidatura, ma di rinuncia alla proclamazione. La proclamazione è un passaggio tecnico che avviene dopo le elezioni. Sulla base dei risultati ottenuti da ciascuna forza politica, gli uffici elettorali circoscrizionali e regionali (organismi terzi, composti da magistrati) dichiarano quanti e quali candidati sono stati eletti. Devono escludere quelli che erano incandidabili sulla base della legge Severino, ma stiamo parlando di condannati in via definitiva per reati con pene superiori a due anni. I casi emersi finora invece riguardano solo regole interne del movimento (mancati versamenti, appartenenza alla massoneria, caso affittopoli).
Rimane un’ultima ipotesi: dare le dimissioni da parlamentare dopo essere stato eletto. Seguendo questa strada però nemmeno la volontà personale è sempre sufficiente. Un parlamentare infatti può rimettere il mandato per due ragioni:
perché è stato eletto o nominato per una carica che è formalmente incompatibile con il mandato parlamentare (ad esempio, un deputato che viene nominato assessore regionale oppure viene eletto parlamentare europeo). In questo caso le dimissioni sono un atto dovuto e l’accettazione delle dimissioni è quasi automatica. Quando le dimissioni per incompatibilità vengono presentate, il presidente della camera o del senato le comunica all’aula e i colleghi ne prendono atto senza voto. Contemporaneamente viene proclamato in sostituzione il primo dei non eletti della stessa lista;
per motivi personali e altre ragioni analoghe. In questo caso l’iter è molto più complesso, la richiesta di dimissioni deve essere calendarizzata e poi approvata a maggioranza dalla camera di appartenenza (con voto a scrutinio segreto). Perciò per dimettersi non è sufficiente la volontà del singolo: camera e senato possono anche respingere le dimissioni e il parlamentare rimane in carica.
Ma perché è così difficile dimettersi? Il costituente voleva evitare che deputati e senatori lasciassero il posto dopo aver subito delle pressioni, magari per far entrare eletti più fedeli alla linea del partito. Le recenti dichiarazioni di Di Maio che ventila denunce per danni di immagine vanno proprio nella direzione opposta, e fanno pensare che, se anche si dimetteranno, le camere bocceranno la richiesta.
Ce lo dicono i dati della legislatura che si sta chiudendo: sono stati 53 i parlamentari che si sono dimessi, ma nel 75% dei casi si è trattato di rinunce per incompatibilità, che quindi non hanno avuto bisogno di approvazione. Solo 13 volte le camere hanno approvato le dimissioni di un loro membro, ma in molti casi i dimissionari hanno giustificato la loro rinuncia al seggio con un nuovo incarico, legalmente non incompatibile con quello di parlamentare ma ritenuto comunque inconciliabile dal singolo. Ad esempio per impegni accademici, come Enrico Letta (Pd), chiamato come professore a Parigi e Raffaele Calabrò (Pdl, poi Ncd), diventato rettore dell’università campus bio-medico di Roma. Oppure Massimo Bray (Pd), che ha dato le dimissioni per dedicarsi a tempo pieno all’Istituto dell’enciclopedia italiana, di cui è attualmente direttore generale
13 i parlamentari che sono riusciti a dimettersi passando da un voto dell’aula
Due parlamentari (Ignazio Marino e Dario Nardella, entrambi Pd) si sono dimessi per candidarsi sindaci di Roma e Firenze. Anche in questi casi, essendosi dimessi prima delle elezioni, non c’era nessuna incompatibilità formale e quindi le dimissioni sono dovute passare dal voto delle rispettive camere. Dove l’approvazione non è per nulla scontata.
Per 13 parlamentari che ci sono riusciti infatti, ce ne sono 8 che – pur avendo dato le dimissioni – sono comunque rimasti in carica. La richiesta di alcuni di loro è stata respinta anche più volte.

Il record di tentativi è detenuto da Giuseppe Vacciano, senatore eletto con il M5s e poi passato al gruppo misto, che ha visto bocciata la sua richiesta per 5 volte. A seguire Giovanna Mangili e Cristian Iannuzzi, anche loro eletti con i 5 stelle, per 2 volte ciascuno. L’unico non 5 stelle a comparire nell’elenco dei “bocciati” è Walter Tocci (Pd), che aveva presentato le dimissioni per un contrasto con la maggioranza sul Jobs Act. La cosa che accomuna molti di questi casi è aver dato le dimissioni per un dissenso dal gruppo di appartenenza. Quindi questi precedenti lasciano immaginare che i candidati coinvolti nei casi, anche se davvero decidessero di dimettersi, probabilmente resteranno in carica per tutta la durata della prossima legislatura.
Fonte: OpenPolis
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