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QUANDO VIRGINIA RAGGI HA RINUNCIATO A POTERI SPECIALI PER ROMA

La sindaca di Roma Virginia Raggi i poteri speciali li ha già. E anzi, si è ben guardata dall’assumerne di nuovi. A dispetto delle battaglie politiche combattute dai suoi predecessori Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Gianni Alemanno e Ignazio Marino, la prima cittadina 5Stelle ha rifiutato il trasferimento dalla Regione Lazio al Comune di alcuni importanti poteri in ambito di trasporti, turismo, cultura, urbanistica.

L’iter, previsto dalla legge Delrio, era stato avviato in Regione ma si è interrotto dopo il cortese “no grazie” della sindaca intervenuta in Commissione Affari Costituzionali della Regione Lazio il 16 novembre del 2016. “La discussione sui poteri è ridicola – commenta oggi Massimiliano Valeriani, capogruppo Pd alla Regione – perché la Raggi ha avuto l’occasione per portare a casa un grande risultato e ha deciso di fare il contrario”.


Così, in barba alle richieste pubbliche presentate al ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, il comportamento reale della prima cittadina tradisce una gloriosa tradizione cavalcata da personaggi come Pino Rauti, storico leader della destra italiana, che – nel corso delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario del Movimento Sociale Italiano, organizzate nel 2006 all’Hotel Parco dei Principi di Roma – sventola la bandiera della romanità citando Giorgio Almirante e la sua richiesta al Parlamento di dar vita a un “Governatorato di Roma “.
E proprio nel 2006, poche settimane prima delle elezioni che portano alla vittoria nazionale di Romano Prodi e alla conferma di Walter Veltroni sulla poltrona di sindaco, viene firmato un protocollo che prevede l’approvazione di una legge che riconosca poteri speciali per amministrare la capitale. Quella legge muore prima di nascere, ma quattro anni dopo – il 17 settembre del 2010 – le cose cominciano a cambiare. Il tandem Berlusconi premier-Alemanno sindaco riesce a mettere nero su bianco i poteri speciali del primo cittadino, indicati all’interno del decreto legislativo numero 156. Un intento pregevole che rimane confinato nel libro dei sogni fino al governo di Mario Monti.
Solo nell’aprile del 2013 il consiglio dei ministri approva il III e ultimo decreto del provvedimento su Roma Capitale. Il decreto assicura finanziamenti statali diretti per il trasporto pubblico locale; attribuisce al sindaco totale autonomia decisionale per far fronte alle emergenze; semplifica le procedure per il finanziamento degli interventi a favore della capitale.
È una rivoluzione al punto che Gianni Alemanno ringrazia il governo tecnico e sbotta: “Viene fuori una capitale più forte, più in grado di incidere sui poteri dello Stato e con maggiore forza dal punto di vista finanziario: abbiamo più libertà e capacità di intervento sul versante del Patto di Stabilità”.
Anche Ignazio Marino, allora candidato sindaco, giubila: “L’ordinamento di Roma Capitale avrà competenze ben definite, prerogative e certezze nell’esercizio dei poteri senza entrare in conflitto con regione e Stato centrale”. Tutti d’accordo, tranne Virginia Raggi, che chiede più poteri (riservandosi di rifiutarli quando le è data possibilità di assumerli) e bacchetta il ministro Calenda dicendo di avere le mani legate.
Eppure, a guardare bene, da quando è stata eletta ha avuto i poteri per dire no alle Olimpiadi volute dalla maggioranza dei romani; per bloccare la costruzione dello Stadio della Roma, della Metro C e il prolungamento della B; e per far impantanare la vendita e rivalutazione della Vecchia Fiera. Ha avuto il potere di nominare i suoi collaboratori, forzando le regole amministrative dell’ente di far ruotare gli assessori come fossero su una giostra e di fare lo stesso con i manager delle aziende. E infine – prima nella storia – di accompagnare al concordato l’Atac, la più grande azienda pubblica della capitale.
Per molti basterebbe questo come prova di forza. Ottenere qualcosa di più richiederebbe un miracolo, ma per quel genere di potere non è sufficiente bussare alla porta del governo.
Meglio una preghiera ai piedi della Porta Santa.
mader
Fonte: la Repubblica